Dal maggioritario al presidenzialismo il passo è breve e la democrazia zoppica sempre di più
Tutto è cominciato molto tempo fa quando la governabilità è stata confusa con la stabilità e la stabilità è stata confusa con la necessità che a comandare ci fossero gruppi ristretti e omogenei, eletti dal popolo con delega immutabile sino alla successiva delega, guidati da un capo carismatico anch’egli eletto dal popolo.
Il 1993 è l’anno in cui tutto ha inizio. La profonda crisi dei partiti dell’arco costituzionale apertasi alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ‘90 anziché favorire una riflessione sulla forma partito (cosa che avrebbe necessariamente comportato la messa in discussione dei gruppi dirigenti), sposta l’attenzione del dibattito politico sulla crisi delle istituzioni rappresentative e sulla ingovernabilità generata da una eccessiva frammentazione della rappresentanza. La Costituzione italiana ha quasi 50 anni ed è necessario, si dice e si chiede, renderla più moderna.
Inizia così quel percorso di riforma costituzionale che oggi, dall’elezione diretta dei sindaci, passando per la riforma del Titolo V, sino alla proposta dell’autonomia differenziata e della trasformazione della nostra democrazia parlamentare in una democrazia presidenziale, continua ad eludere la questione che dovrebbe essere al centro del dibattito politico. Tale questione è: la democrazia rappresentativa così come oggi si configura in Italia assolve ancora al suo compito? La risposta è no; no, perché se il numero di cittadine e cittadini che rappresenta, cioè che hanno espresso il loro voto, si è tanto ridotto e per di più molti di loro dichiarano di non sentirsi comunque rappresentati, vuol dire che il sistema non funziona più.
Allora è vero che bisogna apporre dei correttivi ma non nella direzione impressa negli ultimi trent’anni che ci ha condotti dove siamo adesso, bensì in una direzione esattamente opposta, ritrovando ed ampliando le forme di partecipazione di donne e uomini al “governo”.
La partecipazione, come la democrazia, è uno strumento complesso e fragile da maneggiare con cura; non sopravvive alle ondate di pressapochismo, incompetenza, arroganza, populismo e nazionalismo con cui i/le leader dei partiti politici italiani la sommergono lanciando i loro appelli interessati e demagogici.
La partecipazione alla formazione delle scelte di governo non si oppone né alla governabilità né alla stabilità perché la democrazia si nutre di molteplicità, si arricchisce di alterità; la democrazia vive la complessità, non pretende di risolverla e non teme le contaminazioni, non offre risposte semplici e formulette da spot pubblicitario.
La democrazia ha bisogno di maggioranze e opposizioni, ha bisogno dei corpi intermedi dello Stato, ha bisogno dei cittadini e delle cittadine; se la democrazia non ha al suo interno una dialettica fatta di pesi e contrappesi, di rappresentanza istituzionale e di rappresentanza sociale, di soggetti molteplici e diversi, complementari e a volte conflittuali, si ammala. In questa visione il “conflitto” non è in sé negativo, i conflitti possono generare turbolenze ma possono generare miglioramenti, progressi e passi avanti, perciò esorcizzarli non solo non serve ma è dannoso, i conflitti si risolvono con l’ascolto, la condivisione e la compassione.
È tempo di cambiare rotta, di mettere in campo tutte le risorse di cui il Paese dispone, innanzi tutto le capacità di elaborazione, programmazione e realizzazione che le donne più o meno “organizzate”, e tra loro le femministe, hanno; è tempo di restaurare le istituzioni politiche arricchendole dei contrappesi necessari ad evitare che diventino sempre di più centri di potere volti alla tutela degli interessi di pochi.
La campagna elettorale che ci porterà al voto del 25 settembre non promette affatto bene, liste e programmi non sembrano fare la “differenza”, eppure è proprio di questo che abbiamo bisogno. Qualunque sia il risultato di queste elezioni un grande cammino ci attende e noi lo percorreremo fino in fondo.
a cura di Loredana Rosa