PRIMO MAGGIO: PER NOI DONNE POCO DA FESTEGGIARE
Il primo maggio 2023 volge al termine e ci riconsegna alla quotidianità, una quotidianità caratterizzata da crescenti difficoltà economiche, da disagio psicologico diffuso soprattutto tra le persone più giovani, da un mercato del lavoro in crisi soprattutto per le donne.
Noi non possiamo chiudere questa giornata di festa senza porre l’accento sulle condizioni di lavoro delle donne in Italia
Un obiettivo da raggiungere entro il 2030, secondo l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, che è stata sottoscritta ormai nel lontano 2015 da 193 paesi dell’Onu, dovrebbe essere “l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze”.
Ce la faremo?
L’effetto pandemia sull’occupazione femminile in Italia incombe ancora e ha determinato un ampliamento del divario di genere che non si è più risanato, anche se non è solo questo il fattore che determina la situazione attuale. Contribuiscono al mantenimento del divario anche una cultura ancora per gran parte fondata su stereotipi di genere e su ruoli ancora diffusamente rigidamente distinti in famiglia, politiche nazionali e locali che non favoriscono il lavoro delle donne, la perdita in stato sociale che caratterizza ormai da anni il nostro paese, con la conseguenza che il peso della cura di soggetti più fragili o comunque in condizioni di bisogno di cura ricade soprattutto sulle donne, spesso su donne che svolgono il lavoro di colf, badanti e baby sitter, lavorando magari a nero, quindi senza diritti garantiti.
L’ultimo rapporto ISTAT sul lavoro in Italia, relativo al 2022, dimostra che nonostante sia aumentato il numero di persone occupate, la disparità di genere permane così come permane la grande differenza tra Nord e Sud del paese in termini di occupazione maschile e femminile. Il tasso di occupazione femminile al Sud è pari al 28,9% contro il 52% del Nord.
In Italia, su 334000 persone occupate in più registrate da dicembre 2021 a dicembre 2022, 296000 sono uomini, oltre l’88%, e solo 38000 le donne. Il tasso di occupazione femminile si attesta al 51,3%, cioè solo lo 0,5% in più rispetto all’anno precedente. Il dato risulta tra i peggiori d’Europa se confrontato con la media UE delle donne occupate (62,7%). Il tasso di occupazione maschile in Italia, nello stesso periodo, aumenta di oltre l’1,6%.
Il 49% dei contratti a donne è a tempo parziale contro il 26,2% maschile. In particolare, oltre la metà dei contratti a tempo indeterminato delle donne è part time.
Il part time è dunque erroneamente diventato uno strumento di conciliazione passiva per le donne, perché consente loro di rimanere nel mercato del lavoro facendosi carico, comunque, delle responsabilità di cura.
Le donne che detengono posizioni di leadership in Italia rappresentano oggi il 30%, con un aumento di oltre l’1% rispetto al 2021 e risulta in calo la percentuale di aziende senza presenze femminili in ruoli manageriali, attualmente al 12% rispetto al 23% dello scorso anno.
Ma l’Italia rimane in fondo
alle 30 economie mondiali analizzate per l’occupazione femminile.
Il divario di genere è talmente alto che ormai si parla di “she-cession”, una recessione che compromette il futuro delle giovani donne.
Del resto, anche i dati del recente rapporto PLUS dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) sulla conciliazione vita-lavoro non sono confortanti e mostrano un paese che è lontano dalla media europea.
Le donne hanno minore flessibilità sul lavoro rispetto agli uomini, soprattutto se laureate, e sono meno coinvolte nell’organizzazione degli orari di lavoro: in Italia, come in Grecia e in Romania, per percentuali che vanno dal 76% al 90% dei casi, è il solo datore di lavoro a decidere l’orario di ingresso e uscita dal lavoro. Inoltre, pur all’interno di contesti organizzativi che offrono maggiore flessibilità lavorativa, le donne generalmente si trovano a ricoprire posizioni caratterizzate da maggiore rigidità, anche perché la maggiore flessibilità sugli orari di lavoro caratterizza soprattutto posizioni apicali, di vertice, maggiormente occupate da uomini.
Una conseguenza della pandemia è stata l’introduzione dello smart working, pratica che ha consentito a molte donne di continuare a mantenere il lavoro, consentendo forse una maggiore conciliazione vita – lavoro, ma non senza ricadute negative sulla qualità della vita della lavoratrice e del lavoratore. Il lavoro da casa da remoto, che comunque permette di risparmiare su spese di trasporti soprattutto nelle regioni in cui il servizio è carente se non inesistente e consente di ridurre l’inquinamento dell’aria, coinvolge nel nostro paese l’11,8% degli uomini e il 16,4% delle donne.
Ripensare all’organizzazione del lavoro in termini di riduzione dell’orario di lavoro, sia per le donne che per gli uomini, risulta ormai urgente.
Un’organizzazione del lavoro che consenta, inoltre, ampi margini di flessibilità oraria unitamente a politiche sociali orientate a favorire il lavoro delle donne, per esempio attraverso un incremento degli asili nido pubblici e facilmente accessibili a tutte le famiglie o delle RSA per le persone anziane anch’esse organizzate nell’ottica della flessibilità, sono i primi passi verso una possibile, non certa, soluzione del problema , che non può prescindere da investimenti massicci sull’educazione all’abbattimento degli stereotipi di genere sin dai primi anni di scolarizzazione, da investimenti sulla formazione permanente delle donne, mirata a favorire progressione di carriera e a offrire pari opportunità di occupare posizioni apicali.
L’autodeterminazione delle donne passa attraverso l’autonomia economica e la gratificazione lavorativa, condizioni necessarie anche per scelte libere di maternità/non maternità. Invece adesso troppe donne, troppe coppie sono costrette a scegliere tra lavoro e genitorialità o costrette a rinunciare a costruire una famiglia, pur desiderandolo, per mancanza di lavoro.
L’asimmetria di potere economico che si genera in coppie monoreddito o con forte disparità economica tra uomo e donna contribuisce inoltre, inevitabilmente, a favorire violenze domestiche nelle diverse e molteplici forme in cui sono agite dagli uomini contro le donne.
Se il primo maggio volge al termine, non si ferma qui la nostra lotta per una società più equa e paritaria, per l’istituzione di un un reddito universale che consenta anche di andare incontro all’innalzamento significativo della disoccupazione digitale.
Secondo un recente studio dell’Università di Trento il 33,2% delle persone occupate in Italia svolge mansioni che saranno sostituite dalla tecnologia.